Una provocazione? Può essere. Tanto più che la democrazia – intesa come sistema elettivo rappresentativo, oltre che come modello di partecipazione e di vita – non è concepita ovunque e nello stesso modo. Ma al di là di questo, incuriosisce un articolo pubblicato da David Harsanyi sulla rivista The Federalist che potete trovare qui. La provocazione: è giusto che a votare siano anche gli ignoranti? Il punto in questione è la corrispondenza tra la democrazia effettiva dei governi eletti rispetto a quegli stessi principi democratici che consentono ai cittadini di schierarsi, votare e – per quanto – decidere le sorti del proprio paese. Insomma, la questione – ridotta ai minimi termini – è cara ai più: quanto ne sappiamo prima di andare a votare? Quali sono i motivi che ci inducono a votare per un candidato piuttosto che per un altro? In questo ci viene incontro anche la psicologia politica, secondo la quale, pochi temi possono rappresentare la nostra futura indicazione di voto. Non solo: bastano semplici parole a indirizzare l’atteggiamento dell’elettorato. Però il dubbio, alla fine, è lecito e probabilmente intacca gli attuali governi ‘carismatici’, governi in cui la personalità del leader determina il successo alle elezioni più di quanto possano fare le idee fondanti di partiti e movimenti. Succede quindi, che tanto più siamo istruiti, tanto più le forme di governo assomigliano a un qualcosa di novecentesco (ma con le dovute proporzioni). Da qui l’interrogativo: chi non sa, chi non è informato, dovrebbe avere il diritto di voto? Provocazione, certo: ma il sasso è stato lanciato e la mano – una volta tanto – è ben visibile.