Roma, 28 feb. – Un nuovo disco, “Il sole che verrà”; una carriera esplosa all’estero soprattutto nei paesi di lingua tedesca, che ora torna verso l’Italia: Pippo Pollina passa da Roma in un tour che concluderà a Palermo, la sua città natale.
“E’ il 22esimo disco; un disco sulla speranza, tredici declinazioni di questo concetto che l’hanno permeato fin dal primo momento; ho deciso di farne un concept-album”, dice. “Io ho avuto prima successo all’estero perché sono andato a vivere all’estero, giovanissimo, a 22 anni, e questo ha comportato un distacco preciso. Tant’è che io ho inciso 5 album e fatto dieci anni di concerti prima di rientrare per la prima volta artisticamente in Italia. Prima ho vissuto per un periodo a Vienna, poi nella Svizzera tedesca ma lavorando tantissimo in Germania”.
L’Italia però è sempre rimasta una grande fonte d’ispirazione, e l’italiano la sua lingua d’elezione, una lingua molto amata anche in terra straniera: ” Sempre e soltanto. In italiano e in siciliano.
C’è voluto del tempo però mi sono accorto che la lingua italiana e la cultura italiana sono di grande interesse nei paesi germanofoni, da quando Goethe scrisse “Viaggio in Italia” questo paese, il nostro, è rimasto nell’immaginario collettivo tedesco in maniera importante”.
Un disco anche di duetti con voci femminili, e dove si sente la presenza del mare che divide e che unisce: come nel duetto con la norvegese Rebecca Bakken, “E laggiù le lampare”.
“Quando ho conosciuto Rebecca abbiamo parlato del mare: lei i fiordi, io la Sicilia. Non si possono paragonare questi due mari. Definiscono le nostre terre in maniera completamente diversa. E se è vero che il mare divide i continenti e i popoli, è anche vero che le unisce queste terre, le accomuna” dice Pollina.
E’ per questo che Pippo Pollina canta anche per i rifugiati e le tragedie del nostro secolo, ma attenzione:
“Non ho mai apprezzato chi mi definisce un cantautore politico perché mi sembra sbagliato anche dal punto di vista etimologico. Noi non facciamo altro che descrivere la vita, anzi mi piace l’idea che non facciamo che descrivere l’amore, anche se ci chiamano cantautori ‘di protesta’: cantiamo l’amore per la vita, per il territorio, per i figli, per la nostra donna, per questo pianeta e forse anche per la vita che verrà. E questo è.”