Reykjavik, Islanda – È tutta colpa della corona islandese, valuta distinta dalla corona scandinava dopo la dissoluzione dell’unione monetaria regionale, all’inizio della Prima guerra mondiale. Halldor Armmansson, appena rientrato nel porto di Sandgeroi, nell’Islanda sud-occidentale, dopo dieci ore in mare osserva soddisfatto ma preoccupato i container allineati sul ponte colmi di merluzzi appena catturati. Una corona islandese troppo forte penalizza infatti le vendite. E le quote di prelievo per la pesca dei merluzzi ci mettono del loro.
Anche il turismo ne risente. Un viaggio in Islanda non è più a buon mercato, i costi sono alti e molti preferiscono rimandare la visita, anche per i prezzi al ristorante. “Chiaramente abbiamo deciso di spendere di meno” spiega un turista francese. “Le corone cash che avevo prelevato se ne sono andate in una settimana. In Francia la stessa cifra mi avrebbe permesso di cavarmela con il cibo per tre settimane. È una bella differenza. E adesso tirerò la cinghia”.
L’Islanda è riuscita a compiere una ripresa spettacolare dopo la crisi globale del 2008 che aveva costretto il governo a nazionalizzare tre banche e a imporre severe restrizioni ai flussi di capitali in entrata e in uscita dall’isola che conta solo 320mila abitanti e una densità di 3 abitanti per chilometro quadrato, in Italia è di 198.
Quando le restrizioni sui capitali sono state rimosse, nel marzo scorso, la corona islandese non si è ridimensionata quanto gli esperti si attendevano.
In un anno, tutte le valute estere hanno perso terreno e tra le performance peggiori si segnalano quelle della sterlina, della corona svedese e dell’euro che hanno perso tra il 15 e il 22% rispetto alla divisa islandese. Oggi, per fare un esempio, un euro vale circa 120 corone.
Si tratta di tassi di cambio che, oltre il turismo, colpiscono soprattutto l’industria ittica che esporta quasi tre quarti della produzione in Europa e vale il 40% dell’export nazionale complessivo. Ma se le esportazioni vengono ridimensionate, la corona forte fa sorridere i consumatori locali a fronte di importazioni decisamente più convenienti. I nipotini dei vichinghi ne hanno subito approfittato abbandonando i boccali di cervogia tiepida per ben più sontuosi calici di champagne, il cui consumo nel 2016 è aumentato del 7%.