Milano – Come stare davanti all’arte. In fondo è possibile che tutta l’opera di Giulio Paolini ruoti intorno a questa domanda e lo faccia, sono parole dell’artista, con una “incrollabile devozione, senza neppure pretendere risposta”. Tutto il senso di presenza e assenza; tutto il tentativo di ricreare un ordine inutile e impossibile; tutta la ricerca di un protagonista la cui centralità nel contemporaneo è tale da renderlo quasi invisibile, strutturalmente presente nel modo stesso di pensare l’arte. Tutto questo, “ora e mai più”, in una certa misura condensato in una grande installazione creata da Paolini per il 50enario della Galleria Christian Stein e intitolata, come la mostra articolata tra le sedi di Milano e Pero, “Fine”. Una fine che, a scanso di equivoci, la curatrice Bettina Della Casa ci tiene a precisare non ha riferimenti personali, ma guarda soprattutto al continuum del tempo e all’idea stessa – magnifica o grottesca, come vi piace – dell’eterno ritorno.
“È il mondo dell artista – ci ha detto Della Casa a proposito dell’installazione di Corso Monforte a Milano ogni elemento materiale dell opera proviene dal suo studio, inoltre essa ingloba in sé la storia dell’arte tutta attraverso un insieme di citazioni, non certo come sfoggio intellettualistico, ma come espressione del desiderio di raccogliere intorno a sé gli interlocutori di una vita”.
Tra questi spicca Watteau, e il suo dipinto “L’imbarco per Citera”, eterno momento di soglia (quasi leopardiana) in attesa di (non) muoversi verso un’isola – scrive ancora Paolini nel testo che accompagna la mostra – che “è qui dentro di noi bagnata dal rimpianto di chi, rinunciato all’imbarco, disegna l’itinerario mancato per metterlo in cornice”. Gli elementi fondamentali dunque, le mappe di possibilità, in una parola, quella struttura che è l’arte di Giulio Paolini.
“È come offrire all’osservatore le condizioni d esistenza dell’opera d’arte – ha aggiunto Bettina Della Casa – ovvero gli strumenti che la compongono, lasciando a chi guarda la definizione dell’opera. È sempre un’opera aperta, mai monovalente o univoca, crea piuttosto le condizioni di possibilità dell’opera stessa”.
Una possibilità – ovviamente infinita e necessariamente enigmatica, ma non per questo priva di divertimento – che nella sede di Pero della galleria Stein si manifesta sotto forma di piccola antologica dell’universo paoliniano, testimonianza implicita di una ricerca che, come faceva il poeta Rilke, tende a rinnovare la domanda: “Quando è il presente?”.
“Ci interessava esporre – ha concluso la curatrice una selezione di opere di grande formato datate dagli anni 70 ad oggi. Paolini ha personalmente effettuato una scelta di lavori storici in dialogo con tre interventi inediti. Vengono proposte opere raramente esposte insieme ad altre che invece confermano certe ricorrenze”.
Con Paolini le ricorrenze sono infinite e nell’infinito anche il seminale dilemma amletico si rinnova e si arricchisce, perché qui, in questa Fine che sa di inizio, il traguardo diventa quello di “essere e non essere”. Ed è probabile che la zattera immobile di Giulio Paolini riesca a portarci proprio qui, adesso.