Milano – Pensare ad Alberto Giacometti significa spesso pensare alle sue grandi figure di bronzo e quasi sempre l’immagine immediatamente associata è quella di un uomo che cammina. Senza dubbio quell’urgenza di movimento e quella postura inconfondibile sono dei vertici nella produzione dell’artista svizzero – nato nel 1901 e morto nel 1966 – ma la sua lezione è molto più articolata, ricca e, perché no, anche più problematica.
Il lavoro di Giacometti, infatti, fin dagli esordi, è segnato da una trasversalità di materiali e fonti, da una provvisorietà in continuo movimento, che lo vede passare dal realismo giovanile alla riflessione profonda sull’avanguardia cubista, dal Surrealismo all’arte africana, per arrivare infine alla definizione di quel linguaggio espressivo che oggi identifichiamo con la parola “Giacometti”.
Su questa consapevolezza critica è costruita anche la grande retrospettiva dedicata a Giacometti della Tate Modern di Londra, che consente al pubblico una sorta di immersione nella mente dello scultore, dando spazio, fin dalla prima sala, alle molteplici forme della sua arte.
Il merito della mostra, e in generale di ogni approccio più articolato all’opera dello svizzero, è quello di dare spazio a tutto ciò che sta intorno alle grandi icone, a tutto quel lavoro processuale e a tutta quella ricerca che, alla fine, fanno sì che un artista diventi proprio quell’artista. Una ricerca che spesso, quando si parla dei grandi – e Giacometti è uno che, come peso specifico, vale un Picasso – è fatta di molti diversi esiti e momenti. Che vanno oltre la semplicità di ogni definizione troppo rigida.