Roma – Presenti all’estero già da molti anni, i Piani individuali di risparmio, i cosidetti Pir, sono stati introdotti con l’ultima legge di bilancio. Si tratta di una forma di investimento a medio termine con l’obiettivo di veicolare i risparmi delle famiglie verso le imprese italiane e in particolare verso le piccole e medie imprese. Ne abbiamo parlato con Roberto Ippolito, managing partner di RiverRock Italian Hybrid Capital Fund, un fondo che investe nelle Pmi attraverso una combinazione di credito ed equity, e Alessandro Germani, partner fondatore dello studio GDC Corporate & Tax a Milano, che si occupa della fiscalità di gruppi nazionali e internazionali. I nostri ospiti sono anche coautori del volume Private Equity e Private Debt per le Pmi italiane.
Ma che cosa sono i Pir, e perché se ne parla tanto nelle cronache finanziarie?
“Pir è un acronimo che sta per piano individuale di risparmio – ha spiegato Ippolito – è un “contenitore fiscale” all’interno del quale i risparmiatori possono collocare qualsiasi tipologia di strumento finanziario (azioni, obbligazioni, quote di fondi, etc) o somma di denaro, rispettando però determinati vincoli di investimento. Se ne parla perché mettono in discussione uno dei paradossi dell’Italia, quello di essere un paese ad elevato tasso di risparmio privato che storicamente è affluito in misura molto marginale al settore produttivo (ed in particolare alle Pmi). Un danno grave se si pensa che l’economia italiana è una delle prime al mondo nell’ambito manifatturiero. A fronte di 3.500 miliardi di risparmi di ricchezza delle famiglie – esclusi gli immobili – solo una percentuale inferiore al 5% finisce direttamente in azioni e obbligazione di aziende (escludendo le banche). Anche l’ammontare del risparmio intermediato da fondi comuni e assicurazioni che si investe in azioni e obbligazioni produttive non arriva a toccare 100 miliardi. Quindi i Pir sono una grande opportunità per avvicinare il mondo del risparmio al mondo della produzione.
Un risparmiatore che voglia investire in un Pir come può farlo, e con quali strumenti?
“Il risparmiatore – ha chiarito Alessandro Germani – non può operare da solo data la complessità, da un lato fiscale e dall’altra relativa alla diversificazione del portafoglio e scelta ottimale dei titoli. Quindi è necessario il tramite di un intermediario finanziario o di una compagnia assicurativa. Gli strumenti in cui il risparmiatore può investire debbono essere emessi da imprese con un radicamento nel sistema nazionale, quindi imprese italiane o imprese estere con una stabile organizzazione in Italia”.
Quali sono le agevolazioni fiscali connesse ai Pir e quali cautele è opportuno adottare per un risparmiatore che fosse interessato a un investimento?
“Dal punto di vista fiscale c’è una forte convenienza perché, a condizione che l’investimento sia detenuto per 5 anni il risparmiatore ottiene una completa detassazione sui redditi di capitale e i redditi diversi (di fatto dividendi e capital gain) rivenienti da questi strumenti finanziari. A fronte di questa importante defiscalizzazione, non dobbiamo dimenticare i costi costi commissionali che gli intermediari associano a questi strumenti: quindi è importante che questi costi non siano eccessivi perché altimenti andrebbero ad azzerare il vantaggio fiscale collegato ai Pir”.
Ma quali sono le principali condizioni che un intermediario deve rispettare per la costruzione del Pir?
“C’è una serie di vincoli: almeno il 70% degli strumenti finanziari prescelti deve essere emesso da imprese italiane o estere con stabile organizzazione in Italia. Di questo 70%, almeno il 30% (ovvero il 21% di fatto) deve riguardare strumenti finanziari di imprese diverse da quelle inserite nell’indice FTSE MIB della Borsa italiana. Poi c’è un tema di concentrazione perché non si può investire per più del 10% in strumenti finanziari di uno stesso emittente. Poi dobbiamo considerare un limite di investimento annuale di 30.000 euro e un limite complessivo pari a 150.000 euro”.
In Italia c’è una tradizionale diffidenza delle imprese a forme di finanziamento alternativo ai canali tradizionali: è prevedibile che ci sia un numero sufficiente di imprese pronte ad emettere questi strumenti?
“Se ci basiamo sulle evidenze – ha indicato Ippolito – possiamo guardare con ottimismo allo sviluppo di questo mercato. I Pir hanno raccolto ad oggi un miliardo di euro, dopo un trimestre di avvio, e si stima che entro fine anno arrivino a raccogliere fino a 10 miliardi. Questo a fronte di una diminuzione degli affidamenti bancari alle imprese tra il 2011 ed il 2016 di circa 100 miliardi. Quindi da un lato le imprese hanno indubbiamente bisogno di capitali sotto varia forma per poter tornare a crescere. Poi c’è un tema più qualitativo e culturale, che è l’apertura e la disponibilità degli impreditori, specie quelli piccoli e medi, a dialogare con i gestori di questi fondi. Qui la sfida è aperta: molto è stato fatto, ad esempio da Borsa Italiana e Confindustria con il progetto Elite che ha già lanciato molte aziende su questo percorso”.
Uno strumento promettente, quindi. Ma c’è qualcosa che potrebbe ancora essere migliorata nella sua regolamentazione?
“Sì – ha spiegato Germani – la manovrina discussa dal Parlamento, cioè la conversione del D.L. 50 del 2017 prevede un aspetto molto importante, cioè chiarisce che i Pir possano
investire sia in equity sia in strumenti di debito, e questo nel testo iniziale del decreto non era chiaro. L’aspetto importante legato a questo chiarimento è che così molte risorse potranno affluire verso i fondi di private debt, che tutto sommato sono strumenti abbastanza recenti in Italia e che in questo modo possono avere uno sviluppo cospicuo. Un altro aspetto sicuramente importante è che nel passaggio alla Camera del decreto è stato previsto che gli investimenti di casse e fondi Questo siognifica che si dà uno spazio sempre maggiore allo strumento pur essendo nato come destinato soprattutto all’ambito retail ora si apre anche per ricomprendere gli investitori istituzionali”.