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Eurovision Song Contest: oltre al trash c’è di più


“Il fatto che al mondo non ci sia un concorso canoro internazionale pari all’Eurovision Song Contest per longevità e popolarità dimostra che la manifestazione ha qualcosa di peculiarmente europeo che trascende le singole identificazioni nazionali”. 


L’Eurovision è il più grande show televisivo d’Europa. A dirlo è Dean Vuletic, storico dell’Europa contemporanea presso il centro di ricerca sulle trasformazioni sociali dell’Università di Vienna, nonché uno dei più autorevoli esperti al mondo di questa manifestazione che, da quasi settant’anni, porta in scena l’Europa raccontandola attraverso la musica. Da pochi giorni è uscito per la collana Supertele Tivù di Minimum Fax, “Eurovision Song Contest – Una storia europea”, un libro nel quale Vuletic analizza la storia del contest e spiega il ruolo che avuto nella creazione di un’identità europea. 


Non solo trash, costumi kitsch e spettacoli sopra le righe, quindi. Ne abbiamo parlato con Luca Barra, professore all’Università di Bologna dove si occupa di media e in particolare di televisione, che ha curato, con Fabio Guarnaccia, la pubblicazione del libro.



Che tipo di rapporto c’è tra l’Italia e l’Eurovision Song Contest?
Un rapporto altalenante, direi. Il modello della manifestazione era il Festival di Sanremo, la lingua della prima edizione del 1956 (a Lugano) l’italiano. Ci sono stati momenti di passione, con fiammate improvvise: Modugno e “Nel blu dipinto di blu”, la vittoria di Gigliola Cinquetti, poi quella di Toto Cotugno, periodi in cui i maggiori artisti nazionali fanno a gara per conquistare la ribalta europea. E poi tempi di grande freddezza, con partecipazioni poco convinte, fino alla quasi totale assenza nella seconda metà degli anni Novanta e negli Zero. Dal 2011 la Rai ha deciso di ricominciare, un passo alla volta, a rinsaldare questo legame: una scommessa decisamente riuscita.


Quanto è importante questa edizione per il contesto storico attuale?
Come è spesso accaduto, l’Eurovision è strettamente legato ai conflitti e alle schermaglie, a quanto sta succedendo nel contesto sociale, culturale e politico così come (a volte) a quanto sta per succedere. Quest’anno, con l’invasione russa dell’Ucraina e la guerra in Europa, non fa eccezione, anzi. Già dai primi giorni, quando una delle prime sanzioni è stata l’esclusione della Federazione russa dal circuito eurovisivo e, quindi, dalla gara. O in seguito con il grande sostegno di tutti alla delegazione ucraina, che potrà portare i Kalush molto in alto nella classifica finale. Perché in fondo è nelle situazioni difficili che l’identità europea, pur contraddittoria e molteplice, mostra davvero il suo valore. 


Più in generale, quali sono state le edizioni più contestate?
L’intera storia di Eurovision è fatta di contestazioni e mal di pancia, proteste contro i voti strategici degli altri Paesi, risultati che solo in parte hanno a che fare con la musica o lo show televisivo. Stiamo parlando di una manifestazione che attraversa tutto il periodo della guerra fredda, con la contrapposizione in due blocchi, e poi dopo la caduta del muro di Berlino partecipa al processo di integrazione europea, in parte lo anticipa, per altri versi lo allarga ulteriormente. Limitandosi, poi, al rapporto tra Russia e Ucraina, e il libro lo spiega bene, gli esempi non mancano. La prima si è sforzata di costruirsi un’immagine internazionale moderna e inclusiva, con la vittoria nel 2008 e l’edizione del 2009 a Mosca. Nel 2016 l’Ucraina ha vinto con una canzone dai sottotesti politici e, l’anno successivo, abbiamo assistito all’esclusione della Russia dall’edizione di Kiev.


Il libro spiega bene come, in quasi settant’anni di storia, la manifestazione abbia avuto un ruolo importante nel dibattito sul concetto di identità europea. ll grande pubblico però continua a ricordarlo per le paillettes, gli spettacoli pirotecnici e il trash. Perché?
Non credo ci sia troppa opposizione tra le due cose. Lo spettacolo, l’evasione, l’eccesso sono diventati anche un terreno condiviso sul quale confrontarsi, uno spazio in cui condividere alcuni valori che fanno da denominatore comune. La popular culture è una di quelle cose che riesce a essere al tempo stesso strettamente legata alle singole nazioni (si pensi, per noi italiani, alla rilevanza di Sanremo) e capace di circolare nel mondo, di dialogare con una platea molto più ampia. Anzi, è proprio attraverso ciò che diamo per scontato, quello che ci sembra banale o persino stupido, che si costruisce la nostra comprensione profonda del mondo e, qui, di un’Europa varia e colorata.




Qual è il segreto che ha permesso all’Eurovision di durare così a lungo?
Come scrive Vuletic, all’inizio si è trattato di un esperimento provvisorio, e solo dopo qualche anno l’EBU ha deciso di strutturare esplicitamente la gara come un appuntamento annuale. La televisione è fatta di abitudini, di rituali che si ripetono a distanza regolare, e l’Eurovision non fa eccezione. Inoltre, grazie al suo meccanismo, alla molteplicità delle canzoni in gara, dei Paesi ospitanti, dei punti di vista a confronto, questa “serializzazione” non solo evita di essere sempre uguale a se stessa, ma è stata capace di cambiare tante volte, e tante altre volte ancora cambierà.


Cosa ha convinto tutta l’Europa a votare per i Måneskin?
Dal suo rientro in gara nel 2011, più volte l’Italia ha sfiorato la vittoria – subito con Gualazzi, poi con Il Volo o Mahmood, e non sappiamo cosa sarebbe potuto succedere nel 2020 con Diodato – a indicare una certa benevolenza delle spettatrici e spettatori di Eurovision per un grande Paese fondatore che ha deciso di fare di nuovo sul serio. E su questa base la proposta dei Måneskin è stata molto coerente con il palco di Eurovision – nella cura per la messa in scena, per il senso dello spettacolo e il carisma del gruppo – e al tempo stesso pressoché unica – il rock, i richiami al passato ma in modo estremamente moderno. Il botto internazionale successivo all’Eurovision Song Contest ne è stata un’altra riprova.  




L’Italia ha buone chances di vincere quest’anno?
Difficile fare previsioni, e ancora più difficile vincere Eurovision due volte di fila. Ancora una volta la proposta italiana per la gara è eccellente, perfettamente coerente e al tempo stesso diversa, unica, riconoscibile, tant’è che Mahmood e Blanco sono tra i favoriti. Ma tra le cose più belle di ESC c’è anche la lunga sfilata dei voti delle giurie nazionali, con lo stillicidio di 8, 10 e 12 punti, e poi l’aggiunta del televoto che può ribaltare tutto: la sorpresa è parte del gioco.


Foto: Il tesco Jendrik all’Eurovision Song Contest 2021 (LaPresse)